di Gigi Malabarba, Tatiana Montella, Piero Maestri ( 17.04.2013 )
La
sinistra di classe, anticapitalista e non, si trova di fronte al
fallimento ereditato dagli errori degli ultimi decenni. Quello che
sta accadendo è un sommovimento enorme, evidenziato dal voto
dello scorso febbraio, ma che affonda nella storia più o meno
recente. La scomparsa dalla scena politica di dirigenti come Achille
Occhetto o Fausto Bertinotti si rivela oggi,
solo come l'avvisaglia di una crisi più profonda. E' la
sinistra italiana, in quanto tale, che arriva all'ultimo redde
rationem. Lo scontro tra Bersani e Renzi ne è l'indicatore e
tentativi come quello del ministro Fabrizio Barca, dicono che
rimescolamenti e “ripartenze” sono ancora in programma.
Quando abbiamo
parlato di “fine del movimento operaio” così come si è
costruito nel Novecento, non credevamo che i fatti ci dessero così
facilmente ragione. Se, poi, si sposta lo sguardo sulle convulsioni
del sindacato concertativo, e non, ci si accorge della portata del
terremoto politico e sociale cui siamo messi di fronte.
Il
fallimento della sinistra italiana è clamoroso. Tutta la linea
delle “compatibilità” realizzata per lo meno dal 1976 in
avanti, ha prodotto un arretramento dopo l'altro di cui hanno pagato
il prezzo anche le posizioni più radicali. Lo sfarinamento
politico si è trascinato dietro, un po' alla volta, lo
scollamento da qualsiasi base sociale. Il radicamento in luoghi
significativi dell'appartenenza di classe è diventato un
ricordo. Questa cesura ha dapprima riguardato la sinistra cosiddetta
radicale, Rifondazione per intenderci, ma oggi riguarda
lo stesso Pd e il suo addentellato sindacale.
In
questa situazione ricominciare richiede un misto di umiltà e
ambizione. Una “lenta impazienza”. Occorre infatti ricominciare
dalle fondamenta, riedificare un processo di alfabetizzazione
politica, costruire identità fondate sull'etimologia della
trasformazione. Abbiamo definito questa impostazione un ritorno alla
Prima Internazionale, agli albori del movimento operaio quando la
costruzione di “istituzioni” proprie e autodeterminate del
movimento cercavano di incrociare il miglior pensiero
marxista. Oggi non
ci sono entrambi. Per questo siamo chiamati ad affrontare una dura
fase di ricostruzione.
La
realizzazione di esperienze come Occupy Maflow a Milano o Communia a
Roma, tra le altre, indica, sia pure parzialmente, questa volontà.
La riappropriazione di spazi non solo per contrastare la crisi o
ribadire il primato della socialità sulla privatizzazione ma
anche per riproporre il tema del mutuo soccorso, dell'autogestione,
di una prospettiva politica ed economica “fuori dal mercato”,
capace di contrapporsi al moderno capitalismo.
Sono tasselli
che puntano a una nuova soggettività all'altezza del tempo
futuro. Una nuova soggettività non si dà in termini
consolatori e nostalgici, o semplicemente ribadendo le certezze del
passato, ma solo innestandola nel tempo presente. La sinistra che
verrà potrà sorgere solo da un lento, e significativo,
accumulo di esperienze come queste o a esse analoghe.
In questi
giorni si sono moltiplicati appelli, incontri, prese di posizione che
si pongono esplicitamente l'obiettivo di «riaggregare»
una sinistra frammentata (sinistra che, ad esempio nell'articolo di
Alberto Burgio, sul manifesto del 16 aprile, arriverebbe a
comprendere lo stesso Pd). Pur con il rispetto per lo sforzo di
discussione che viene proposto da alcuni di questi documenti - come
nel caso della lettera aperta della direzione nazionale del Prc o
dell'appello promosso da un'aggregazione come il NoDebito - non ci
convincono percorsi di «ricostruzione» di un soggetto
politico sulla base di astratte alleanze tra forze o soggettività
politico-sindacali che non vanno oltre l'immaginario di una
impossibile "Syriza italiana" o che pensano sia sufficiente
trasferire una pratica sindacale - che quanto meno dovrebbe essere
profondamente ripensata - in ambito politico.
Siamo
convinti che lo schema tradizionale secondo il quale, prima si
ricostruire un grumo politico-ideologico e dopo ci si cimenta con le
lotte, non ci faccia fare grandi passi avanti. Quello che ci
interessa è invece aprire nuovi spazi alle forme di
politicizzazione, oggi necessariamente
ibride, a volte ambigue o collocate su percorsi contraddittori (non
ci insegna qualcosa il successo grillino?). Per questo imbocchiamo
un’altra strada. Ci interessano campagne mirate in grado di
produrre senso e mobilitazione.
Vogliamo,
comunque, organizzare le resistenze e l'opposizione alle
politiche di austerità. In questa direzione non serve però
un astratto “fronte” dei soggetti di opposizione, troppo spesso
limitati ai ceti dirigenti di quei soggetti, ma una pratica politica
allargata, coalizioni multiple, “forum” tematici (come quello
nato sabato scorso “per una nuova finanza pubblica e sociale”),
esperienze sociali, sapendo che il collegamento, la “rete” e
l’unità d’azione rimangono comunque beni preziosi a patto
che siano attraversati da contenuti e programmi condivisi e producano
campagne, conflitti, vertenze.
Oggi serve
sicuramente una mobilitazione comune contro le politiche di austerità
e la «lotta di classe dall'alto». Un passo avanti in
questa direzione potranno essere la manifestazione del 18 maggio
indetta dalla Fiom, e prima di essa la MayDay milanese che affronterà
il nesso tra debito - distruzione territoriale - precarietà, a
partire dal No a Expo 2015, l'ennesimo inutile grande evento
deleterio per le finanze pubbliche e i destini del territorio.
Saranno
poi le sperimentazioni di una nuova politica a permettere la nascita
di un nuovo soggetto a sinistra, un soggetto che per noi dovrà
essere anticapitalista e alternativo a qualsiasi alleanza con il
centrosinistra ed alla rappresentanza puramente istituzionale. Ma i
tempi di questa rinascita non sono oggi definibili.
La lenta impazienza, appunto.
Viviamo
un'epoca in cui i tempi della politica sono usciti " dai propri
cardini" e la situazione si fa interessante.