di Pino Arlacchi |, 27 Febbraio 2019
Se c’è una lezione che si impara dirigendo una grande
organizzazione internazionale come l’Onu è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente
coincide con la sua versione ufficiale. Le idee dominanti –
come diceva il vecchio Marx – restano quelle della classe
dominante. E il caso del Venezuela di
questi giorni si configura appunto nei termini di una gigantesca truffa
informativa volta a coprire la sopraffazione di un popolo e la
spoliazione di una nazione.
Il principale mito da sfatare
riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano. I media occidentali non
hanno avuto dubbi nell’additare gliesecutivi succedutisi al potere dopo l’elezione
del “dittatore” Chávez alla
presidenza nel 1998 come unici responsabili della crisi, nascondendone la
matrice di gran lunga più importante: le barbare sanzioni americane contro ilVenezuela decise
da Obama nel
2015 e inasprite da Trump nel
2017 e nel 2018.
Spese sociali mai così alte. La “dittatura” di Chávez,
confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum e consultazioni
nazionali successive, è stata condotta sotto il segno di uno strappo radicale
con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in
massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’oligarchia locale e
imboscati nelle banche degli Stati Uniti.
Nonostante Chávez abbia
commesso vari errori di malgoverno e corruzione tipici del populismo di
sinistra – errori confermati in seguito dal più deboleMaduro – sotto la sua presidenza le spese
sociali hanno raggiunto il 70% del bilancio dello Stato, il Pil pro capite è
più che triplicato in poco più di 10 anni, la povertà è passata dal 40 al 7%,
la mortalità infantile si è dimezzata, la malnutrizione è diminuita dal 21 al
5%, l’analfabetismo è stato azzerato e il coefficiente Gini di disuguaglianza è
sceso al livello più basso dell’America Latina (dati Fmi, Undp e Banca Mondiale).
Ma la sfida più temeraria lanciata dal Venezuela “socialista” è stata quella contro
l’egemonia del dollaro. L’economia ha iniziato a essere de-dollarizzata favorendo
investimenti non statunitensi, tentando di non farsi pagare in dollari le
esportazioni, e creando il Sucre, un sistema di scambi finanziari regionali
basato su una cripto-moneta, il Petro, detenuta dalle banche centrali delle
nazioni in affari col Venezuela come
unità di conto e mezzo di pagamento. Il tempo della resa dei conti con il Grande Fratello è
arrivato perciò molto presto. Molti hanno evocato lo spettro del Cile diAllende di 30
anni prima.
Ma il Venezuela di
oggi è preda ancora più consistente del Cile. Dopo laRussia, è il Paese più
ricco di risorse naturali del pianeta: primo produttore mondiale di petrolio e
gas, secondo produttore di oro, e tra i maggiori diferro, bauxite, cobalto e
altri. Collocato a tre ore di volo da Miami, e con 32 milioni di abitanti. Poco
indebitato, e capace di fondare una banca dello sviluppo, il Banco do Sur,
in grado di sostituire Banca Mondiale e Fondo monetario come
sorgente più equa di credito per il continente latinoamericano.
È per queste ragioni che la “cura cilena” è inizialmente fallita. Il tentato
golpe anti-chavista del
2002 e le manifestazioni violente di un’opposizione divenuta eversiva e
anti-nazionale, si sono scontrati con un esecutivo che vinceva comunque
un’elezione dopo l’altra. Perché anche i poveri, dopotutto, votano. L’occasione
per chiudere la partita si è presentata con la morte diChávez nel
2013 e il crollo del prezzo del petrolio iniziato nel 2015.
La strategia delle
sanzioni – La raffica di sanzioni emesse l’anno
dopo con il pretesto che il Venezuela fosse una minaccia alla sicurezza
nazionale degliUsa mettono
in ginocchio il Paese. Il Venezuela viene
espulso dai mercati finanziari internazionali e messo nelle condizioni di non
poter più usare i proventi del petrolio per pagare le importazioni. Quasi
tutto ciò che entra in un’economia che produce poco al di fuori degli idrocarburi deve
essere pagato in dollari contanti. E le sanzioni impediscono, appunto, l’uso deldollaro.
I fondi del governo depositati negli Usa vengono congelati osequestrati.
I canali di rifinanziamento e di rinegoziazione del
modesto debito estero del Venezuela vengono chiusi. Gli interessi sul
debito schizzano in alto perché le agenzie di rating al servizio di Washington
portano il rischio paese a cifre inverosimili, più alte di quelle della Siria.
Nel 2015 lo spread del Venezuela è di 2 mila punti, per raggiungere e
superare i 6 mila nel 2017.
Gli economisti del centro studi Celag hanno quantificato in 68,6 miliardi di
dollari, il 34% del Pil l’extra
costo del debito venezuelano tra il 2014 e il 2017. Ma il più micidiale degli
effetti del blocco finanziario del Venezuelaè il rifiuto delle principali banche internazionali,
sotto scacco americano, di trattare le transazioni connesse alle importazioni
di beni vitali come il cibo, le medicine, i prodotti igienici e gli strumenti indispensabili
per il funzionamento dell’apparato produttivo e dei trasporti.
Gli ospedalivenezuelani restano
senza insulina e trattamenti antimalarici. I porti del paese vengono dichiarati
porti di guerra, portando alle stelle le tariffe dell’import-export. Il valore
delle importazioni crolla da 60 miliardi di dollari nel 2011-2013 a 12 miliardi nel 2017,
portandosi dietro il tonfo del 50% del Pil.
Le banche di Wall
Street – I beni che riescono comunque a essere
importati vengono accaparrati e rivenduti di contrabbando dagli
oligopoli dell’industria alimentare che dominano il settore privato dell’economia
venezuelana. La stessa delinquenza di alto livello che tira le fila del
sabotaggio del Clap,
il piano di emergenza alimentare del governo che soccorre 6 milioni di
famiglie. È stato calcolato che tra il 2013 e il 2017 l’aggressione finanziaria
al Venezuela è
costata tra il 110 e il 160% del suoPil, cioè tra i 245 e i 350 miliardi di
dollari. Senza le sanzioni, l’economia del Venezuela, invece di dimezzarsi,
si sarebbe sviluppata agli stessi tassi dell’Argentina.
Durante il 2018 si sviluppa in Venezuela una crisi umanitaria interamente
indotta. Che si accompagna a un’iperinflazione altrettanto fasulla, senza basi
nei fondamentali dell’economia, determinata da un attacco del mercato nero del
dollaro alla moneta nazionale riconducibile alle 6 maggiori banche d’affari di Wall Street.
È per questo che il rapporto
dell’esperto Onu che
ha visitato il Venezuelanel
2017, Alfred De Zayas (di
cui non avete mai sentito parlare ma che contiene buona parte dei dati fin qui
citati), propone il deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale
Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il
2015.
* Vicesegretario Generale dell’Onu dal 1997 al 2002