mercoledì 27 agosto 2014

Il Governo italiano dalla primavera all'autunno

di
Lidia Cirillo

Che le apparenze non ingannino. Le cose avvenute in Senato nei mesi estivi meritano un po’ di attenzione, anche da parte di chi di solito non gliene dedica alcuna. E’ vero che la rumorosa tenzone tra partiti, con i suoi 8.000 emendamenti, può essere ridotta a una serie di ricatti reciproci in vista del voto sulla legge elettorale e di altre poste in gioco prossime venture. Berlusconi per esempio pone il veto sulle preferenze nel timore di perdere il controllo su Forza Italia, mentre il Ncd aspira invece a reintrodurle perché ha un elettorato composto di clientele personali. Il PD insiste sul doppio turno, che ad avviso dei suoi pensatori dovrebbe favorirlo. I piccoli partiti si ritengono inguaiati dall’enorme soglia di voti minimi e così via con altre poco interessanti e poco edificanti beghe corporative. La battaglia estiva è stata inoltre anche rivolta attraverso i media al popolo elettore per enfatizzare l’opposizione a un governo e a una leadership che si troveranno presto in difficoltà e in previsione di possibili e già previste scadenze elettorali.
E’ vero anche che alcuni organi di stampa hanno avuto gioco facile a sbeffeggiare comportamenti e linguaggi degli ultimi senatori eletti della repubblica: il bestiario con i gufi, sciacalli e canguri entrati nel lessico politichese degli ultimi mesi; i neologismi, come il “discussionismo” coniato da Renzi, che talvolta somiglia davvero all’imitazione che ne fa il comico Crozza; le palline di carta lanciate in aula, come in una classe di scuola media inferiore in libertà. Di tutti i segni di un mondo che vive di logiche e di linguaggi solo propri, vale la pena di sottolinearne uno soltanto. In uno degli ultimi giorni di luglio i parlamentari di opposizione hanno manifestato sotto il Quirinale in solitudine e senza alcun tentativo di coinvolgere porzioni anche modeste di opinione pubblica. Con la consapevolezza forse che il tentativo sarebbe stato vano e comunque a evidente dimostrazione che essi stessi si percepiscono per ciò che sono, una corporazione in lotta per se stessa. Ma appunto, che le apparenze non ingannino. Sia pure con contraddizioni e lentezze, con una consapevolezza solo parziale e in un clima che si presta alla più facile ironia, i senatori hanno svolto una parte non irrilevante dei compiti a casa assegnati da chi davvero comanda e decide.
La soppressione del Senato nel cambio delle regole del gioco
Prima di tutto: Renzi è oppure non è il protagonista di una svolta autoritaria? Se si sostituisce il termine “svolta” con un altro più adeguato e che non dia l’impressione di un cambio improvviso di direzione, allora certo che siamo di fronte a un’operazione di accentramento del potere politico e quindi obiettivamente autoritaria. Il presidente del Consiglio e la sua équipe tentano di portare a compimento una dinamica già in atto da tempo, innescata dalla crisi dei partiti di massa, e che consiste in una modifica delle forme di dominio del capitale. 
Tutta una serie di osservazioni fatte sulle vicende istituzionali negli ultimi mesi (Zagrebelsky, Diamanti, Ferrara ecc.) sono appropriate e possono essere riprese. Si è fatto notare il paradosso antidemocratico di un parlamento eletto incostituzionalmente che mette mano addirittura a una modifica della Costituzione. Oppure l’atteggiamento e il linguaggio del leader con i suoi “asfalteremo” e “decido io”. Si è criticato il passo di marcia con cui è stata condotta la soppressione del bicameralismo paritario, il cui obiettivo è evidentemente quello di ridurre la possibilità del parlamento di ostacolare gli esecutivi.
Guido Crainz in un numero di Repubblica di fine luglio ha ricordato come fosse stata la DC a insistere sul bicameralismo, quando paventava rapporti di forza elettorali favorevoli alle sinistre. E come, dopo la vittoria del 18 aprile, si fosse invece ben guardata dall’attuare gli organismi di garanzia previsti, a partire dalla Corte costituzionale, richiesta con insistenza dalla sinistra. Per altro l’attuale governo appare già dalla sua nascita come l’adattamento a quelle dinamiche di cambiamento delle forme del dominio di cui si diceva prima. Personalizzazione della politica, imitazione del leader carismatico, tendenza alla presidenzializzazione, accentramento di poteri, insofferenza verso la discussione, maschera dell’antipolitica, logiche plebiscitarie, pressioni per asservire ulteriormente l’informazione…
Seconda domanda: in quale misura questo ha a che fare con le relazioni sociali? In questo suo completo abbandono alla corrente Renzi è l’esecutore degli ordini espliciti e impliciti di una parte del corpo sociale. Dell’1 per cento? Del 5 o del 10 per cento? Certo di una piccola parte, ma di una parte effettiva di società e solo per questo le maggioranze possono continuare ad agire pro domo propria. Quando Draghi si lamenta perché la riforma dello Stato monopolizza la politica italiana e rimanda quindi i tagli di spesa promessi da tempo, fa semplicemente il suo mestiere, cioè batte l’asino che già corre nella direzione desiderata perché acceleri il passo. L’Unione europea ha infatti più volte redarguito i politici italiani per quelli che ritiene problemi irrisolti di esercizio del governo nelle sue modalità e negli aspetti strutturali, funzionali e strumentali del governare. Il che significa in parole povere che il frustino della troika e le sue briglie indirizzano nello stesso tempo verso gli aggiustamenti economici e politici, ritenendoli a giusta ragione complementari e inseparabili.
E infine: quanto vale in moneta contante una battaglia di difesa delle logiche di democrazia parlamentare, del bicameralismo, dell’attenzione ai contrappesi e dello spirito e delle intenzioni sul tema di padri e madri costituenti? Ora, intendiamoci, chi per fortuna o disgrazia ha una presenza in parlamento non può sottrarsi alle forme specifiche di un’opposizione al suo interno. E le poche e isolate preoccupazioni reali per la democrazia non hanno potuto sottrarsi nemmeno in questa occasione. Se non altro come denuncia e purché non si siano illuse che ci fosse davvero qualcosa da difendere. Che si provi qualcuno a teorizzare la funzione democratica del Senato, luogo istituzionale in cui sono passate le peggiori porcate berlusconiane, a cominciare dalla compravendita degli eletti.

La crisi e il Medio Oriente come metafora
Mentre il presidente del Consiglio si preparava a passare sotto l’arco di trionfo per essere riuscito a suicidare il Senato, è giunta la notizia che tutte le previsioni di crescita per l’Italia erano sballate. Il Pil è in netto calo e le previsioni di crescita dello 0,8 per cento di primavera appaiono già in estate fuori dal mondo. L’illusione di una ripresa modesta ma a portata di mano non riguarda solo l’Italia, la stessa logica vale per l’eurozona nel suo complesso, sia pure in modo al suo interno differenziato. L’annuncio di una ripresa che non c’è stata e l’attribuzione della responsabilità ora all’Ucraina ora al Medio Oriente hanno a che fare con l’ideologia. Lo sanno ormai anche i gatti, lo dice ormai anche chi poi dal governo la applica che l’austerità deprime e che l’equivalenza conti in ordine/ripresa dell’economia è una balla. La deflazione inoltre è destinata ad aggravare la situazione, perché innesca la spirale per cui a un calo dei prezzi seguono la minore liquidità, le difficoltà maggiori delle aziende e l’aumento della disoccupazione, la minore spesa, l’eccesso di produzione e un nuovo calo dei prezzi. Come poi ha spiegato chiaramente Marco Bertorello sul Manifesto, la deflazione aggrava il peso dei debiti e il debito italiano è già passato in un paio d’anni dal 120 al 135 per cento in rapporto al Pil.
Che a spingere nel senso dell’austerità siano interessi e non errori di calcolo è cosa nota e che non c’è bisogno qui di argomentare, le questioni che possono interessare sono invece altre. Prima di tutto se è vero che esistono in Europa falchi e colombe, settori più interessati all’austerità e settori più interessati allo sviluppo. In secondo luogo se è vero che le formazioni sociali egemoniche sono disposte a pagare anche il prezzo della depressione all’affermazione definitiva di un modello sociale di completa libertà nell’uso della forza lavoro, come sostiene Alberto Burgio in un editoriale del Manifesto del 20 agosto. Ora una tesi e l’altra non sono prive di fondamento. Le classi non hanno interessi omogenei, possono configgere al proprio interno e i loro principali settori premere in direzioni diverse. Così come è vero che l’austerità e le cosiddette riforme strutturali, chieste con insistenza dalla leadership europea, hanno una posta in gioco politica che non viene mai trascurata. Tuttavia un’altra considerazione è forse più importante. Non esistono solo settori del capitale i cui interessi divergono, esiste soprattutto un capitale che diverge da se stesso. Esso avrebbe bisogno nello stesso tempo di austerità e di crescita, cosa evidentemente impossibile ma che non smette di alimentare sia le rappresentazioni ideologiche, sia sforzi e tensioni nell’inseguimento del margine di sviluppo possibile. Non bisogna inoltre resuscitare l’immagine del capitalismo lungimirante e capace di pilotare sempre e comunque la crisi nella direzione che desidera.
Il rischio maggiore è in ultima analisi proprio l’opposto, cioè quello di un capitale capace di vincere la guerra contro l’avversario di classe, ma non di difendersi da se stesso e porre limiti alle proprie dinamiche distruttive. Una metafora degli effetti possibili è l’incendio fuori controllo in Medio Oriente. Lì, lo Stato in cui il capitalismo ha radici più robuste e profonde, ha combinato nel giro di alcuni decenni un disastro a cui non sembra capace di porre rimedio e che gli si ritorce contro.
Le pratiche di potere e i cinque sensi del lavoro salariato
Non si sa se Renzi dorma sonni tranquilli, ma c’è da dubitarne. Allo stato attuale delle cose gode soltanto del patrimonio del voto alle elezioni europee, cospicuo certo ma unico e solo. I dubbi sulla sua legittimità sono diffusi, è ostaggio della destra e inviso a molti in casa propria, deve fare i conti con la terza recessione in pochi anni, è schiacciato tra le pretese della leadership europea e l’esigenza di consenso in vista di scadenze elettorali prossime venture. Ricorre perciò alle tradizionali pratiche di potere. Prima pratica: sollevare una densa cortina fumogena dietro la quale capitalisti, lobbisti, tecnici e i pochi politici che sanno quel che fanno affilano le lame dei tagli. La cortina fumogena in questo caso è la flessibilità, cioè l’applicazione flessibile dei vincoli di bilancio, che in sé non risolve e non rilancia nulla ma servirebbe ad allentare per qualche mese il nodo alla gola del governo. Quanto alle lame si chiamano “riforme strutturali”, “risparmi” e “lotta ai privilegi” e la loro logica di fondo è invariabilmente la stessa. Le misure già approvate e quelle in cantiere, quelle confermate e quelle rinnegate, ma destinate a tornare, delineano infatti una prospettiva che non lascia dubbi. Sotto tiro c’è ancora ciò che resta del martoriato articolo 18. Qui le scuole di pensiero si dividono tra chi ne vuole l’abolizione tout court e chi invece ne propone la sospensione nei primi tre anni di lavoro. Con il rischio che i settori più deboli della forza lavoro non salgano mai il gradino tra terzo e quarto anno, vengano cioè licenziati prima. Si discute e si fanno ipotesi sull’entità dei tagli alle pensioni contributive: sopra i tremila euro? sopra i due mila euro? sopra i due mila lordi o sopra i due mila netti? La CGIL ha già protestato perché nel disegno di legge sulla pubblica amministrazione è prevista una deroga al divieto di trasferimento da un’unità produttiva a un’altra in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Un importante decreto prevede tra l’altro un’ulteriore deregolazione per l’edilizia privata, mentre il commissario alla spending review ha lavorato alla liquidazione delle società partecipate dalle amministrazioni dello Stato, che per altro come il Senato non verranno rimpiante da nessuno. Ancora una volta poi “dagli all’untore”, cioè calci nel sedere al privilegiato impiegato statale colpevole di godere ancora di qualche diritto e per cui si parla di blocco biennale della busta paga e ancora di blocco del turn over. Contro l’anemia da disoccupazione si prevede la terapia del salasso dell’ulteriore perdita di diritti attraverso una legge che elimina l’obbligo di indicare la causale nei contratti a termine. La scuola dovrebbe venir trasformata secondo criteri aziendali e gli insegnati collocati secondo tre fasce di stipendio e la sanità non sarà risparmiata perché tecnici esperti di lame e di coltelli hanno già deciso in quali delle sue parti sarà più conveniente infilarli.
Sarebbe insensato tuttavia affrontare l’argomento senza dire qualcosa sulla seconda pratica di potere. Mentre la prima (quella della cortina fumogena) riguarda la vista, la seconda riguarda l’udito. Seconda pratica di potere è infatti il silenzio, di cui il governo ha evidentemente deciso di rendersi complice, perché nulla dice e progetta sui famigerati Tpp, Ttip e Tisa, cioè sugli accordi internazionali voluti da una speculazione finanziaria più aggressiva che mai. Sui contenuti e sulle possibili conseguenze varrà la pena di tornare in articoli specifici, ma ricordare qualcosa può aiutare a immaginare le acque in cui nuoteremo. Nei paesi i cui governi aderiranno agli accordi ogni servizio sarà privatizzabile e sanità e istruzione diventeranno il principale oggetto degli appetiti dei capitali in cerca di profitti. Sarà obbligatorio investire le stesse risorse in pubblico e privato e proibito tornare indietro sulle privatizzazioni già fatte. Multinazionali e banche potranno denunciare e pretendere risarcimenti, quando riterranno che questa o quella legge di uno Stato danneggi i loro interessi. L’Europa dovrà essere vincolata alle regole americane sulle merci e verranno così meno le tutele sul lavoro, l’ambiente, l’energia, l’agricoltura e la sicurezza alimentare. La deregolamentazione finanziaria sarà ulteriormente incrementata e i governi potrebbero essere costretti ad approvare prodotti finanziari potenzialmente tossici.
Altre pratiche di potere riguardano l’odorato, il gusto e il tatto e se ne può parlare non per gioco, visto che gli esseri umani entrano in contatto con il mondo attraverso i cinque sensi. Per l’odorato la pratica consiste nella diffusione di sostanze aromatiche cancerogene perché il capitalismo emana odore di marcio. Sarebbe snobistico e astratto obiettare che il problema non è la corruzione di un sistema ma il sistema in sé, perché un sistema si accetta o si rifiuta per gli effetti che produce su tutti i piani. Il capitalismo è amaro e la pratica di potere può tradursi nella metafora di indorare la pillola, mentre al toccare con mano, a cui i subalterni sono prima o poi costretti, si pone rimedio cambiando il nome alle cose. Si chiama per esempio “messa in concorrenza della forza lavoro sul piano globale”, viene ribattezzata “lotta all’immigrazione clandestina”.
Quando riscaldare l’autunno non basta più
Di fronte alla prospettiva del blocco delle buste paga agli statali e ai tagli alle pensioni le confederazioni minacciano un autunno caldo, anzi “incandescente”. Anche in questo caso l’ironia è facile perché ciò che davvero sta sullo stomaco ai sindacati è altro, in modo particolare l’atteggiamento del governo nei confronti della concertazione e il recente dimezzamento dei permessi sindacali. Misura questa che da sola già la direbbe lunga sull’anima nera dell’équipe renziana. Naturalmente coloro a cui l’autunno piace caldo non possono che augurarsi la temperatura più alta possibile. Oggi tuttavia bisognerebbe cominciare a interrogarsi sulla nozione stessa di “autunno caldo” e chiedersi se le vampate ottobrine, anche quelle più credibili nelle intenzioni e legate all’iniziativa dei movimenti e del mondo antagonista, non servano più da assoluzione alla dispersione del resto dell’anno che a costruire davvero qualcosa.
Il problema di fronte all’attuale stato di cose è che servirebbero davvero un minimo di visione collettiva della realtà e qualche elemento di progetto. Inutile e dannoso evocare il mitico partito, i cui tempi e le cui modalità, anche se davvero fosse questa la soluzione, si collocherebbero comunque su altre dimensioni. E che può diventare anch’esso l’alibi per non agire nel presente con le possibilità effettive del presente. Ciò che già questo autunno servirebbe è facile a dirsi e difficile a farsi, ma dare un nome ai propositi potrebbe essere utile. Servirebbe un’unità non contaminata da aspirazioni a liste elettorali e fondazione di forze politiche; servirebbe un’informazione capace di funzionare da antidoto alle pratiche della cortina fumogena e del silenzio; servirebbe la solidarietà per evitare che lotte autorganizzate vadano nella direzione della guerra tra poveri, come la raccolta di firme contro l’inserimento nelle graduatorie di insegnanti del Sud; servirebbe infine la connessione stabile di lotte che serve a poco connettere solo se e quando l’autunno si riscalda e cadono le foglie.

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